09 dicembre, 2005

Amore, coraggio e suicidio nell'ultima opera di Mauro Monni (recensione di Andrea Claudio Galluzzo)

L'involucro è scomparso, ma le persone che lo portavano esistono tuttora e certo voi amate esse e non il loro involucro. Prima, però, di poter comprendere la loro condizione dopo la trasformazione nella morte, è necessario conoscere la propria. Si deve cercare di far nostra l'idea che siamo esseri immortali, perché divini in essenza; una scintilla del fuoco di Dio. “Iddio creò l'uomo a sua immagine” (Genesi 1,27). Prima di rivestire l'involucro chiamato 'corpo' abbiamo vissuto lunghe età e ne vivremo ancora a lungo dopo che esso si sarà dissolto in polvere.

Nell'ultima fatica letteraria di Mauro Monni "Visto da qua (il cielo è ancora più blu...)", lo scrittore fiorentino, già autore del romanzo "Se ricominciare è una questione di scelte" pubblicato nel 1994, affronta il tema della scelta e dell'aldilà con una certa ironica sfrontatezza. Subito si ha chiaro che la morte non esiste. Pagina dopo pagina, si entra in un gioco di sogni, realtà trascorse e possibili. Ci si trova come in un torrente di ricordi, ma il ricordo non è il tema centrale. L'opera non è una descrizione delle vite di sette noti suicidi e dell'amabile Rino Gaetano. Nel fluire del testo, si continua a vivere una situazione soltanto all'apparenza rievocativa della vita. Si vive ancora. La scelta del suicidio non è assolutamente importante. Si tratta solo di uno strumento per vivere di più e diversamente la vita. I personaggi raccontati da Monni parlano o rimpiangono il passato, ma il loro fine non è quello di dolersene: la rievocazione è soltanto il mezzo più semplice per interagire con gli altri, per provare emozioni e incontrare nuovi sentimenti. Questi morti sono vivissimi e anche vivaci. E ciò è possibile soltanto perché la morte non esiste.

Cesare Pavese, Ludwig di Baviera, Marina Cvetaeva, Jim Morrison, Vincent Van Gogh, Jan Palach, Jeanne Modigliani ed infine Rino Gaetano, l'unico a non essersi suicidato, sono gli otto personaggi famosi che si siedono intorno al tavolo di un localaccio aperto solo per loro da Mauro 'Lucifero' Monni. Otto spiriti che dialogano e vivono grazie al luogo magico che li sta ospitando. Quel posto è il cuore dell'autore e nella dimensione del suo amore essi vivono davvero.

Solo attraverso l'affetto e sentimenti puri essi riescono ad affrontare e superare, in un collettivo sforzo finale, il martirio del dolore e la solitudine delle loro sofferenze. Come ricorda Monni, il dolore appartiene ai singoli: è unico ed ognuno si porta il proprio fardello, che, comunque sia, è sempre troppo pesante. Il suo peso è sostenibile solo comunicandolo. Gli otto personaggi, infatti, lo esprimono e se ne fanno reciprocamente partecipi. E' l'unica strada che posseggono per liberare finalmente le proprie anime. Anime che non resistono più e che hanno un'estrema necessità di amare e di essere amate. Questo esame ultraterreno dimostra come le modalità della morte siano in effetti secondarie rispetto alla necessità di vivere profondamente, di vivere veramente.

Nell'opera è interessante notare come siano indagati gli argomenti della depressione e dell'autocommiserazione. L'autore compie un tagliente viaggio nelle menti contorte e spinose degli otto commensali. Chi è abituato a leggere le opere di Freud è colpito dal suo singolare metodo di indagine: partendo dallo studio delle reazioni psichiche normali, arriva alla formulazione dei processi patologici; oppure procede in maniera inversa: dallo studio dei fenomeni patologici giunge a spiegare le leggi di funzionamento generale dell'apparato psichico. Mauro Monni sfrutta sempre a doppio senso tutte le strade praticabili, comprese quelle apparentemente a senso unico. Ogni personaggio rivela pertanto una parte di sé stesso inconsueta ed imprevedibile.

Chiaramente il testo di "Visto da qua" non è un percorso per affrontare i problemi delle persone depresse, ma resta il fatto che non indulgendo a semplificazioni, porta comunque aiuto a coloro che non sono stanchi di porsi domande sul significato esistenziale della malinconia e sul processo psichico che la sostiene e la rende possibile. La fragilità individuale originaria, insieme col terrore per la separazione da chi rappresenta letteralmente una fonte di vita, costituisce il modello per ogni esperienza malinconica. Il filo che tiene insieme le tematiche affrontate nell'opera si può rappresentare con le parole che Kierkegaard pone all'inizio della "Malattia Mortale", là dove scrive che l'uomo cristianizzato ha acquistato un coraggio che l'uomo naturale non conosce. Quando si teme infinitamente un pericolo, è come se gli altri non esistessero affatto. Nessuno dei personaggi sarebbe in grado di combattere il proprio inferno al di fuori dei sentimenti di affetto e solidarietà che, pian piano, si sviluppano nel gruppo. Si tratta in sostanza di un'inconsapevole evangelizzazione post mortem.

Monni vuole avvisarci che ciò che si è creduto essere la nostra vita è in realtà quasi solo un giorno della nostra vita reale. I nostri otto protagonisti non sono morti, ma hanno soltanto deposto l'involucro più denso. Malgrado ciò, non dobbiamo pensare a loro come ad un soffio incorporeo, perché essi non sono in alcun modo diminuiti da quanto erano prima. E niente torna più utile al caso delle parole di San Paolo di Tarso: "Se vi è un corpo materiale, vi è pure un corpo spirituale" (Corinti 15,44 45). Spesso tale frase è stata male interpretata: si pensa a questi corpi come se fossero successivi e non si comprende invece che tutti noi li possediamo anche ora, uno visibile e l'altro invisibile. Quando si abbandona il primo, si mantiene ancora quello più sottile, cioè si resta rivestiti del 'corpo spirituale.

«La morte è povera cosa, ma chiude una ferita mortale». Questo famoso verso shakespeariano ben figurerebbe a conclusione della tragedia terrena degli otto 'attori' di Monni. Solo per degli individui che hanno avuto la forza di darsi la morte la vita non è più una lenta agonia. "Sorella morte" è bella. Essa è la porta verso un'altra dimensione, un oltre che dona improvvisamente senso e significato al tutto. La morte ha il merito di concludere e risolvere l'altrimenti irrisolvibile esistenza terrena.

Fonte:
http://www.galluzzo.it/

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