27 gennaio, 2010

Ai confini del linguaggio

Che cos'è il linguaggio? Esiste qualcosa oltre il linguaggio? Sono questioni ardue, giacché bisognose di presupposti saldi attraverso definizioni rigorose; occorrerebbe anche distinguere tra linguaggio e lingua. La lingua è contraddistinta da una doppia articolazione (il significante, ossia la struttura del segno, nella lingua, può essere scisso ulteriormente, laddove nel linguaggio il suono non può essere ulteriormente scomposto).

Tralasciando aspetti complessi, proviamo ad accennare alla natura del linguaggio nel mondo contemporaneo, in cui, come osserva Angelo Ciccarella, "la realtà è stata rimpiazzata dalla relazione". Infatti le parole, con la loro forza di simbolizzazione, tendono a sostituire le azioni, i sentimenti, le sensazioni ed i referenti. Si crea in questo modo una frattura tra l'uomo e le cose, tra uomo ed uomo, divenuti inter-locutori. Si può dunque almeno in parte condividere il pensiero di Hagege che annota: "La lingua è una delle manifestazioni più alte e, al tempo stesso, più banalmente quotidiane della cultura".

Credo che sia fondamentale una distinzione che si inarca in una dicotomia: da un lato assistiamo alla strutturazione di un linguaggio sempre più invadente, basato sul codice binario, su bit, su impulsi; dall'altro si staglia in lontananza, simile ad un tremulo miraggio balenante all'orizzonte, il linguaggio vero che, superando le transazioni comunicative, gli usi strumentali, mira a rasentare l'essere. Heidegger, in alcune sue elucubrazioni talora (volutamente) oscure ma a volte profonde allude a questo tipo di logos. Nel testo In cammino verso il linguaggio il filosofo tedesco scrive: "Ma dove il linguaggio, come il linguaggio si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la giusta parola per qualche cosa che ci tocca, che ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma. Allora lasciamo nell'inespresso quello che intendiamo e, senza che ce ne rendiamo conto, viviamo attimi in cui il linguaggio, proprio il linguaggio ci sfiora di lontano e fuggevolmente con la sua essenza."

Quindi ciò che giace nel non detto, nel detto a fior di labbra, nel detto ma in modo provvidenzialmente approssimativo è capace di evocare l'essenza ed è qui evidente che l'essenza, come la parola, è imparentata con il silenzio. In principio era il Logos? In principio era il silenzio, il non manifesto di cui il Logos è il palesamento primo. Il valore mistico, quasi spirituale che Heidegger tende ad attribuire alla voce è agli antipodi della parola standardizzata e sclerotica della "cultura" odierna. E' la parola sacra dei profeti, la metafora (trascendimento) degli artisti, ad alludere, ad illimpidire il senso, a riflettere l'essere come uno specchio. Essa è insofferente della logica e delle corrispondenze biunivoche tra segno e denotatum (l'oggetto), tra significante e significato, tra locutore e funzione. Non è il linguaggio che disegna una mappa del territorio per sostituirlo con la rappresentazione. E' questo, ad esempio, il linguaggio della scienza che, una volta elaborata una formula plausibile e sovente effimera, vi incastra a forza il reale con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni.

Certo, qui ci si deve chiedere che cosa sia il reale e se sia possibile conoscerne qualche frammento, al di fuori del linguaggio, per quanto convenzionale (?) ed impreciso. Ci domandiamo se l'essenza stessa dell'essere sia linguistica, ossia costruita su rapporti per così dire alfanumerici. E' evidente che i fenomeni sono di tale indole, ma non sappiamo se lo sia anche il noumeno. E' probabile che, oltre le apparenze, si occulti un essere la cui natura sfugge a qualsiasi categorizzazione.

Dunque si potrebbe concludere un discorso, che aborre da qualsivoglia conclusione, con una frase di Federigo Tozzi, trasferendola, con un po' di audacia, dall'ambito psicologico-intimista in cui sbocciò ad una sfera ontologica: "Vi è in noi sempre un mondo che sembra destinato al silenzio ed è forse il migliore ed il più significativo."



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2 commenti:

  1. A volte un gesto è molto più eloquente di mille parole, pertanto oggi noi non parliamo solamente ma usiamo le posture del corpo ed i gesti del corpo stesso come le mani i piedi e la testa, dove al suo interno ci sono incasonati i nostri occhi (il tatto per i ciechi) che esprimono molte parole molto di più della parola stessa.

    Il fatto di estrapolare concetti astratti con la parola, non è sempre indole di progresso, la parola ha tolto immediatezza al gesto, rendendo più fragili (perché più contorti) i rapporti umani.

    La perdita della naturalezza umana ha portato le nuove generazioni a coltivare la musica, molto più spontanea e semplice, oggi invece la parola serve più per imbonire le masse, fare addormentare le coscienze, purtroppo "oggi" questo uso è unidirezionale dal più forte al più debole individuo, per ideologie in specialmodo per gli oscuri, che vogliono opprimere il più debole.

    La comunicazione esercitata con la parola è ormai diventata solo propaganda, ad uso e consumo e monopolizzata dalla centralizzazione dei beni materiali occidentali.

    Noi occidentali continuiamo in un ripetersi di parole vuote che ormai non hanno nessun riscontro nella vita sociale di tutti i giorni, si! "Un buon tacer non fu mai scritto", ed io concordo con il corsivo ultimo tuo Zret.

    wlady

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  2. Wlady, le tue parole sono molto consapevoli ed assennate. E' interessante la tua riflessione sul linguaggio del corpo, ahinoi, studiato con fini di manipolazione e controllo dalla Programmazione neuro-linguistica.

    Vero è anche che, oggi, il linguaggio è diventato potente strumento per plagiare le menti e le coscienze. Quanti hanno contezza di come il linguaggio dei media ufficiali sia un'arma?

    Con Tozzi, affidiamo al silenzio le intuizioni più abissali e folgoranti.

    Ciao e grazie.

    RispondiElimina

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