Può sembrare paradossale, ma chi brama sempre nuovi prodotti, invero non è attaccato alle cose, ma al loro valore simbolico (status symbol), alla possibilità di ostentare prestigio sociale. Spesso questa attrattiva per le cose si incanala verso strumenti tecnologici, visto che oggigiorno la persona tende a vivere in simbiosi con la téchne.
La materia lascia trasparire una filigrana spirituale. E’ una filigrana che gli esseri reificati non riescono ad intravedere. Gli oggetti, invece, per gli uomini più evoluti sono o possono assurgere, come ci ricorda Giulio Carlo Argan, a valori. E’ l’utensile appartenuto al nonno e che si rivela ancora adatto alla bisogna. E’ la suppellettile che ingentilisce un angolo della nostra casa. Di per sé il soprammobile è insignificante, ma è circonfuso di un’aura o perché è un dono di un amico o in quanto è legato ad un’esperienza indimenticabile e così via. Ecco che la cosa, inerte e vuota, si riempie di senso per noi. Sono soprattutto gli oggetti dell’infanzia a caricarsi di energie, di evocazioni, di odori: sappiamo sbarazzarci delle automobili in miniatura con cui ci divertivamo, quando eravamo piccoli? Anche le banali figurine raccolte con zelo paziente sarebbero ancora custodite in qualche cassetto, se madri un po’ corrive non le avessero gettate via. Forse l’attaccamento a certe cose è il legame con il nostro passato, ma il tentativo di aggrapparsi ad un passato altrui. Infatti oggi noi non siamo più chi fummo.
Il tempo trascorso, scrive Montale, “appartiene ad un altro”... ad un altro me stesso, bisogna chiosare, giacché la nostra identità è flusso, cambiamento, impermanenza: già dieci minuti addietro eravamo differenti da come siamo adesso. Allora gli oggetti diventano gli appendini cui sono sospesi i nostri molteplici e fallaci io. Che cos’è l’identità, se non una risma di fogli incollati l’uno sull’altro?
Seguiamo un‘intervista video, ma non ascoltiamo! Guardiamo l’ambiente in cui l’intervistato risponde alle domande: gli scaffali con i libri dietro di lui, l’arredamento, i dipinti e le stampe alle pareti, i vasi con le piante... esprimono dell’intervistato la natura intima, le sue abitudini, gusti, interessi, ubbie... in una parola, l’anima.
In un melanconico e bellissimo sonetto, il poeta barocco Tommaso Stigliani contempla l’arredamento della camera in cui suole soggiornare, pensando che, quando sarà conclusa la sua vita, gli oggetti, invece, muti e silenziosi, continueranno a vivere ancora per molte generazioni. L’immortalità appartiene a cose morte. Eppure non sono forse esse, almeno sotto certi rispetti, immagini che misteriosamente proietta la nostra prodigiosa coscienza? Non sono forse le ombre colorate della nostra fervida immaginazione?
Alcuni ritengono che, se esiste un mondo ultraterreno, esso sarà popolato dalle nostre proiezioni, dai desideri e dai sogni: se abbiamo sempre vagheggiato una villa su una scogliera, carezzata dall’azzurro del mare e del cielo, un giorno vivremo lì. Quella dimensione sarà abitata dalle persone, dagli animali e dagli oggetti che più abbiamo amato, sempre che abbiamo amato.
E’ folle incistarsi al denaro, al possesso, alle ricchezze. Nella novella “La roba”, Giovanni Verga descrive la disperazione del protagonista che, sapendo di essere prossimo a morire, vorrebbe portare tutto il suo patrimonio con sé. La ricchezza, però, è merce ed usura, mentre le cose amate, persino a volte quelle di “pessimo gusto”, come le definisce Guido Gozzano, si animano, come se scorresse al loro interno una linfa.
Spiritualizzare la materia, che forse è solo un simulacro dello spirito, è alchimia per eccellenza. La vita dunque può essere tentativo alchemico o deriva verso il nulla.
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