Scrive Robert Graves, saggista, poeta, narratore e studioso delle religioni antiche: “Anticamente, a quanto sembra, in tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, la crocifissione era la sorte cui erano destinati i sacri re annuali: per l’esattezza, la crocifissione su un albero entro un cerchio di pietre. Si ritiene che tale prassi sopravvivesse in età storica nella Britannia settentrionale e nelle regioni più selvagge della Gallia: i dignitari legavano il re ad una quercia che era stata potata a forma di T. Il rex era poi ornato con rami verdi, incoronato di biancospino, fustigato e malmenato, infine arso vivo. […] La sua anima ascendeva nel cielo sotto sembianze di un’aquila. […] Paralleli alle pratiche celtiche si incontrano in Asia Minore, Siria e Palestina. Presso gli Israeliti il re era ancora crocifisso annualmente a Shiloh, Tabor ed altrove al tempo dei Giudici; e la croce a tav, vale a dire a forma di T, era tatuata a mo’ di marchio sulla fronte degli appartenenti al clan al cui interno era designato il rex sacrorum. In qualità di marchio di casta ricorre nella letteratura sacra ebraica in due sensi contraddittori: nel Genesi come il marchio di Caino, ed in Ezechiele, come il segno impresso sulla fronte di tutti i giusti quale distintivo rispetto ai peccatori, in vista del giorno del giudizio.
Con la salita al trono di Saul, si instaurò l’usanza di prolungare il regno del sovrano per un certo numero di anni e nel frattempo di sacrificare ogni anno un dod, un sostituto, un ariete. Il pio re Giosia abolì la crocifissione, inserendo nel Deuteronomio un articolo secondo cui tutto ciò che era crocifisso non era benedetto, bensì maledetto.[…] Presso altre nazioni il sacro re sfuggiva alla crocifissione a patto che trovasse un dod, un figlio, un nipote materno che il re insigniva temporaneamente dei simboli della regalità, la qual cosa spiega la leggenda del sacrificio di Dioniso per opera di Zeus, ma, con l’andar del tempo, furono accettati congiunti meno diretti e, ancor più tardi, prigionieri di guerra di sangue reale o di rango inferiore, infine si ritennero adeguati alla bisogna persino i criminali. Allora la crocifissione si tramutò in una punizione del crimine. Tuttavia alcuni elementi del rituale antico persistettero anche dopo che le sue origini sacre furono dimenticate: presso i Romani tra i suddetti elementi rientra l’azzoppamento della vittima, mentre è appesa alla croce: poiché il sacro re era in origine claudicante, anche il suo sostituto dev’essere azzoppato.[…] E’ difficile stabilire fino a che punto il rituale romano fosse di origine indigena ed in qual misura cananea, giacché gli antichi Romani usavano una croce ad X, mentre la croce a T fu mutuata dai Cartaginesi durante la Seconda guerra punica: i Cartaginesi erano Cananei. In ogni caso, è un paradosso che la crocifissione, che era stata un mezzo magico per procurarsi l’immortalità, fosse in seguito considerata dai Giudei una punizione ignominiosa e fosse usata dai Romani per scoraggiare i sediziosi”.
Le fonti romane (Livio in primo luogo) descrivono il rex sacrorum o rex sacrificulus, come una figura sacerdotale in cui probabilmente si assommavano carismi sacri e simboli del potere. Anche se in età repubblicana il rex sacrorum era subordinato al pontefice massimo, è probabile che in principio egli fosse il re le cui prerogative dipendevano dalla sua immolazione, come spiega Graves. E’ anche vero che la zoppia è un attributo della sacralità, riscontrabile, ad esempio, nel dio Efesto-Vulcano. Non è un caso se il Re Pescatore (Amfortas) nella tradizione del Graal è affetto da una menomazione che è attributo del sacrum.[1] Sacralità e regalità anticamente erano non solo connesse, ma consustanziali: il re è sommo sacerdote e viceversa. Presso gli Ebrei, il Messia è sovrano, ma anche intermediario tra il popolo e YHWH, non meno dei sacerdoti. Se in molti contesti i ruoli furono distinti, tracce delle pristine cerimonie e valenze si reperiscono ancora in età successive. Un sovrano come Numa Pompilio, celebrato dai Romani come colui che, grazie ai consigli della Ninfa Egeria, dettò all’Urbe i riti, la disciplina augurale, le ricorrenze religiose etc., rivela la correlazione tra sacerdozio e dignità regale.
Perché la croce e la crocifissione, prima di denotare infamia, erano emblemi religiosi e regali? Probabilmente perché la croce nelle sue varie fogge adombra il legame tra la Terra ed il Cielo, tra il mondo naturale e la dimensione soprannaturale.
Il Messia crocifisso fu re? Sul cartiglio fu scritto, secondo i Vangeli, Iesus Nazireus rex Iudaeorum: tale titolo non sembra avere valore ironico. Così la crocifissione, alla luce degli studi antropologici, attesta, invece di sminuire o negare, la regalità del Cristo, la cui morte è gloriosa proprio perché su una croce, immagine altresì di una riconciliazione tra Dio e l’Uomo. Che Gesù discendesse o no dalla stirpe di David è controverso, ma che fosse di lignaggio aristocratico è plausibile, a parere di molti storici.
Stando a recenti indagini, risulterebbe che i Romani usassero per le condanne capitali di sediziosi e malfattori le croci ad X, dato che le altre causavano una morte troppo rapida del condannato, laddove una lunga agonia era garantita solo se il reo era attaccato ad una decusse.
[1] Altri attributi sono il segno distintivo, la capacità di operare prodigi e guarigioni, la conoscenza di formule segrete. Forse il rex Nemorensis è figura simile al rex sacrificorum.
[2] Amfortas, il Re Pescatore o Re Ferito, è un personaggio che figura in alcune opere del ciclo arturiano come ultimo discendente della dinastia dei Re del Graal, custodi della preziosa reliquia. E’ caratterizzato in modi anche molto differenti dai vari autori. In ogni caso, soffre di una menomazione alle gambe o ai genitali ed ha difficoltà a muoversi. Nel Cristianesimo dei primi secoli talora Gesù era rappresentato come gobbo e zoppo, prima che si affermasse l’iconografia del Cristo-Orfeo e quella del Pantocrator.
Fonti:
H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, 1991, s.v. inerenti
Dizionario di antichità classica, Milano, 2000, s.v. inerenti
A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana, 1982-2011
R. Graves, Iesus rex, 1946, p.458-459
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