Fu Agostino ad introdurre la lettura silenziosa: tale novità fu non meno radicale dell’invenzione della scrittura, attribuita al dio egizio Thot e deplorata da Platone. Se, da un lato, la lettura acquisì una dimensione introspettiva e personale, dall’altro si smarrì il suono della voce propria o altrui – gli antichi solevano ascoltare, traendone diletto, durante i simposi ed in altre occasioni, dalla viva voce dell’anagnostes passi di opere.
Con un enorme sforzo di immaginazione, riusciamo a figurarci il mégaron del palazzo miceneo, dove al chiarore caldo del focolare, gli astanti si beavano delle saghe declamate da un rapsodo.
Si può immaginare quale fu la perdita: il timbro di una voce si imprime nell’animo, simile ad un calamo con cui si incide la cera. Il suono è già, almeno in parte, senso.
Siamo immersi in un mondo di vibrazioni: il celebre incipit del Quarto vangelo, “In principio era il Logos,” potrebbe valere “In principio era il suono”. Gli stessi rumori sono scanditi da ritmi o venati talora da labili linee melodiche. I suoni della natura creano una sinfonia mirabile, non solo per varietà di toni, di accenti e di modulazioni, ma anche per la profondità degli echi emotivi che essi suscitano.
Si legga un testo ad alta voce o lo si ascolti, mentre qualcun altro lo legge: più facilmente resterà impresso. Se ci si riferisce ad una memoria visiva, esiste pure una reminiscenza fonica.
Fu merito dei poeti simbolisti - in Italia spicca l’esperienza di Pascoli - rivendicare l’autonomia del significante, rispetto al significato. Il suono, essenza e riflesso delle cose, fu valorizzato nella sua potenza espressiva: quando si compenetra al concetto, in una sintesi inscindibile ed armonica, rivela la sua natura primigenia.
E’ palese che la nostra società ha i sensi ottusi: incapace di ascoltare ed auscultare, ci si limita ad udire distrattamente. I suoni sono privi di colore, di sfumature: tutto è livellato nel grigio più tetro o scavato nel frastuono. Le necessità comunicative mantengono in vita le voci, con qualche rimasuglio di inflessione, ma già nelle stazioni e negli aeroporti impera una rigida voce digitale. Anonima e fredda si staglia su un panorama piatto.
Con un enorme sforzo di immaginazione, riusciamo a figurarci il mégaron del palazzo miceneo, dove al chiarore caldo del focolare, gli astanti si beavano delle saghe declamate da un rapsodo.
Si può immaginare quale fu la perdita: il timbro di una voce si imprime nell’animo, simile ad un calamo con cui si incide la cera. Il suono è già, almeno in parte, senso.
Siamo immersi in un mondo di vibrazioni: il celebre incipit del Quarto vangelo, “In principio era il Logos,” potrebbe valere “In principio era il suono”. Gli stessi rumori sono scanditi da ritmi o venati talora da labili linee melodiche. I suoni della natura creano una sinfonia mirabile, non solo per varietà di toni, di accenti e di modulazioni, ma anche per la profondità degli echi emotivi che essi suscitano.
Si legga un testo ad alta voce o lo si ascolti, mentre qualcun altro lo legge: più facilmente resterà impresso. Se ci si riferisce ad una memoria visiva, esiste pure una reminiscenza fonica.
Fu merito dei poeti simbolisti - in Italia spicca l’esperienza di Pascoli - rivendicare l’autonomia del significante, rispetto al significato. Il suono, essenza e riflesso delle cose, fu valorizzato nella sua potenza espressiva: quando si compenetra al concetto, in una sintesi inscindibile ed armonica, rivela la sua natura primigenia.
E’ palese che la nostra società ha i sensi ottusi: incapace di ascoltare ed auscultare, ci si limita ad udire distrattamente. I suoni sono privi di colore, di sfumature: tutto è livellato nel grigio più tetro o scavato nel frastuono. Le necessità comunicative mantengono in vita le voci, con qualche rimasuglio di inflessione, ma già nelle stazioni e negli aeroporti impera una rigida voce digitale. Anonima e fredda si staglia su un panorama piatto.