Un quesito cui, invece, è più facile replicare verte sulle circostanze che possiamo considerare elargitrici di gioia. Se, come notava Schopenauer, non sappiamo veramente per quale recondita ragione tendiamo verso obiettivi che ci donano un per quanto effimero appagamento, siamo consci di quanto siano gratificanti certi risultati. Il ricordo, sia pure sfocato, di quei piaceri ci sprona a ripercorrere le strade che menano al soddisfacimento. Sono strade – è arcinoto – disseminate di sassi roventi e di spini, ma tant’è…
Uomini simili a bruti perseguono solo la voluttà dei sensi, mentre le persone di natura elevata aspirano a ben altre mete, al nutrimento dell’anima. Le situazioni intermedie sono numerose. Gli Ottentotti, in fondo, desiderano prolungare indefinitamente certe sensazioni gradevoli, laddove gli “spiriti magni” vedono proprio nel tempo l’inciampo, adoperandosi per trascenderlo e negarlo. L’estasi di Plotino ed il nirvana sono proprio superamenti dei limiti spazio-temporali in cui è serrata l’esistenza.
Che cosa pensare dunque di quelle chiese che promettono una felicità eterna ai giusti in una terra rigenerata, ma pur sempre su questa terra, attraverso una vita idilliaca e serena, situata nello spazio e nel tempo? Mi pare una prospettiva poco desiderabile: non subentrerebbe ad un certo punto la noia? Anche qualora quella vita paradisiaca fosse allietata da mille delizie ed animata dal desiderio di studiare le meraviglie della natura, si gusterebbe, primo o dopo, il sapore stucchevole del già noto, a meno che tale stato non combaci con un flusso inconsapevole, ossia con una felicità dimentica, ignara di sé stessa, un po’ come quella degli animali che non provano la sofferenza legata alla coscienza di esistere. Suprema contraddizione: si è felici solo se non si sa di esserlo.
Vivere per sempre? Certo, Ziusudra tentò in ogni modo di carpire agli "dei" il segreto dell’immortalità, ma forse gli uomini sono più felici degli dei proprio perché mortali. Paradossalmente la felicità prospettata da taluni diverrebbe una condanna.
Antitetica è, ad esempio, la concezione della felicità in Dante che considera la beatitudine un pieno adeguamento alla volontà di Dio. Il Paradiso è luogo che è un non-luogo, un tempo che è un non-tempo. La beatitudine, ineffabile stato, è sull’orlo del non essere.
Chissà, forse l’unica vera felicità concessa all’uomo, creatura curva sul dolore e sull’angoscia, è l’estinzione, il nulla. Quante volte abbiamo desiderato spegnerci! Inutilmente. Eppure se la felicità non è l’annientamento, abita nelle regioni limitrofe dell’oblio, del silenzio, della lontananza infinita dal mondo.
Infine l’unica vera ricompensa per aver tanto patito e sopportato invano, potrebbe essere il niente… meglio di niente.