31 dicembre, 2011

Un inno manicheo

In un inno manicheo, tratto dalla raccolta Angad Rosnan, è descritta l’unio mystica tra l’anima e la Luce divina. Finalmente libera dal carcere mondano, l’anima, che era stata esiliata sulla terra, si ricongiunge all’ineffabile Scaturigine.

In questi tempi tetri e scellerati, l’ode sprigioni qualche favilla di speranza.


Luce
lieta e bella,
colma di beatitudine,
pervade la mia mente.
Mi parla
in illimitata beatitudine
il mio io sollevato
da profonda oppressione
ed a me dice:
“Vieni, anima, non temere!
Sono il tuo Intelletto,
messaggio di speranza.
Tu sei il mio corpo e la mia veste…
Sono la tua Luce
anticamente raccolta,
l’Intelletto supremo e la speranza compiuta. [1]

[1] L’inno è riportato in G. Widengren, The great Vohu Manah, p. 17

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29 dicembre, 2011

I prodigi di Giuseppe Flavio (seconda ed ultima parte)

Leggi qui la prima parte.

L’ampio stralcio riportato sciorina alcuni portenti che sono non di rado descritti dagli scrittori antichi: alcuni fatti meravigliosi, che attrassero l’attenzione di Giuseppe Flavio, ricordano analoghi fenomeni raffigurati da Livio, Plinio il Vecchio, Seneca, Giulio Ossequente, Ammiano Marcellino… solo per citare autori latini. Bisogna chiedersi se lo storico ebreo sia fededegno: anche se egli mirò ad ingraziarsi i Flavi, da cui era stato beneficato, non rinunciando ad una coloritura polemica, allorquando vuole mettere in cattiva luce i nazionalisti ebrei, non si può concludere che Giuseppe Flavio fu testimone e cronista inattendibile. Le sue opere, alcune scritte a ridosso degli eventi narrati, paiono piuttosto scrupolose e, nei limiti delle esigenze narrative ed ideologiche, spassionate. [1]

Vediamo quali sono i mirabilia su cui si sofferma Giuseppe Flavio per compierne poi una scorsa.

- Un astro a forma di spada ed una cometa che durò un anno, apparsi nel cielo di Sion
- Uno splendore che circonda il tempio
- Una mucca che dà alla luce un agnello
- La pesante porta orientale del tempio che si apre da sola
- Carri da guerra e schiere di armati che, sbucando dalle nubi, attorniavano Sion
- Una scossa ed un colpo, quindi un insieme di voci che annunciarono: “Da questo luogo noi andiamo via”

La stella a forma di spada, insieme con la cometa che fu vista per un intero anno, potrebbe essere un corpo celeste. E’ plausibile che la cometa fu un fenomeno naturale, mentre l’astro simile ad un gladio potrebbe essere ricondotto ad un U.F.O.

Il fulgore che attornia il tempio forse provenne da una sorgente nel cielo, ma è assai arduo pronunciarsi sulla sua origine e natura.

La mucca che partorisce un agnello è un prodigio che ricorda analoghi monstra, segnalati soprattutto da Livio nell’”Ab Urbe condita libri”, come la porta del tempio che si apre da sola.

I carri e le schiere di armigeri in cielo sono le tipiche rappresentazioni, sia letterarie sia iconografiche, di presunti ordigni non identificati. In numerose altre fonti antiche e medievali, con l’espressione “carro di fuoco” si indicano mirabolanti veicoli che furono scorti incrociare nel cielo.

La scossa ed il colpo (un boato?) precedono la conturbante frase: “Da questo luogo noi andiamo via”. La vibrazione ed il colpo furono causati dal repentino spostamento di un grosso mezzo aereo?

L’interpretazione clipeologica di alcuni portenti è probabilmente grossolana, anche se ancorata alla lettera del testo ed all’inevitabile tendenza degli uomini dei secoli passati a tradurre, per mezzo di un vocabolario aderente al loro immaginario ed alla loro cultura, “cose” straordinarie. Così la percezione di presunti strumenti tecnologici fu forse resa tramite designazioni tratte dal linguaggio dell’astronomia (la cometa), della vita quotidiana, della guerra (carri, le schiere di soldati) etc.

Non si può escludere, però, che siamo al cospetto di spettacoli e circostanze preternaturali, a tracce di un’irruzione nel mondo sublunare per opera di presenze “altre”, rappresentate attraverso le risorse lessicali cui si è accennato sopra.

La voce di commiato rammenta, mutatis mutandis, l’enigmatico accento che, secondo Plutarco, echeggiò durante il regno di Augusto, quando un navigatore udì sul mare: “Il grande dio Pan è morto”. Il grido, segno del tramonto di un’era e di una civiltà, si confonde con il congedo che ignote entità presero da Gerusalemme.

Allora gli déi (o gli “déi”?) si allontanarono dalla Terra e dai suoi abitanti. Definitivamente?

[1] Giuseppe Flavio fu un ebreo osservante della Torah, vicino al movimento dei Farisei ed ostile ai gruppi sciovinisti (Zeloti e Sicari). Durante la prima guerra giudaica (66 d.C.) ricoprì la carica di governatore militare della Galilea. Quando i rivoltosi compresero che erano perduti, si uccisero in massa. Giuseppe riuscì a rimanere vivo e si consegnò ai Romani. Si incontrò con Tito Flavio Vespasiano, allora generale, cui predisse che sarebbe diventato imperatore: Vespasiano, destinato veramente a diventare principe, gli risparmiò la vita e Giuseppe si legò alla Gens Flavia.

Fonti:

M. Biglino, Il Dio alieno della Bibbia, 2011, p. 224
Enciclopedia dell’antichità classica, Milano, 2005, s.v. Giuseppe Flavio, Pan


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25 dicembre, 2011

L’origine del male secondo Tolomeo

Guido Pagliarino, nel saggio “Cristianesimo e Gnosticismo 2000 anni di sfida”, riporta la dottrina di Tolomeo, teologo gnostico-cristiano, di scuola valentiniana.[1]

Scrive l’autore: “Per Tolomeo, Cristo ha, oltre allo Spirito, un corpo psichico, non carnale, ma neppure solo apparente, in quanto è dotato di reale anima (psiche) umana, per cui possono essere salvati gli psichici oltre agli spirituali: secondo lui, solo i materiali (ilici) cadono senz’altro nel nulla. Anche per Tolomeo, quindi come per tutti gli gnostici, l’immortalità dei salvati da Cristo non è quella cristiana in corpo ed anima; anzi, come vedremo parlando di Paolo, quella di un corpo animale psichico trasformato in corpo spirituale glorioso. Secondo Tolomeo, Dio è Uno e si devono considerare inesistenti Abisso e Silenzio predicati da Valentino. Il Demiurgo è buono anche se, potremmo dire, pasticcione: non è in grado di realizzare, pur con ottima intenzione, il mondo che è nella mente dell’Uno. L’ha fatto maligno per avventatezza, non apposta, un po’ come certi piccoli che vogliono di nascosto imitare la madre in cucina e vi combinano qualche guaio”.

Come si comprende dai lineamenti della dottrina elaborata da Tolomeo, la presenza del male è spiegata, delineando un Demiurgo imperfetto e maldestro. In questo modo non solo si scagiona Dio (l’Uno), ma pure l’artefice del mondo considerato, invece, malvagio da alcune frange gnostiche e talora identificato con YHWH. La teologia di Tolomeo implica una visione entropica del processo creativo che genera una realtà inferiore all’idea primigenia: uno scollamento ontologico separa l’archetipo dalla materia, secondo un quadro che si ritrova nel Neoplatonismo e, più in generale, in tutte le fiosofie incentrate sul concetto di emanazione. Il male è dunque, per così dire, non tenebra, ma luce molto fioca.

E’ una delle tante congetture che – ne sono conscio – molti reputeranno una bestemmia più che un’eresia: la visione di un Dio incompiuto, non onnipotente è un escamotage teorico per tentare di chiarire il mysterium iniquitatis o contiene un’intuizione corretta? Un Dio simile è ipotizzato da alcuni scienziati: essi ritengono che la Mente cosmica, per evolvere, per diventare cosciente di sé, abbisogni di esperire lo spazio-tempo, di proiettarsi nella dimensione fisica. Solo, postulando un Essere siffatto, ha senso riferirsi al concetto di evoluzione, poiché è palese che un Dio perfetto non esige alcuno sviluppo. Il cosmo stesso diventa la palestra in cui ci si allena per un salto evolutivo: chiuso un ciclo, se ne apre un altro ad un livello superiore, fino a quando il Tutto non culmina nel Compimento e nella Quiete. E’ un pensiero ragionevole o l’essere tende, a mo’ di asintoto, verso una Perfezione intangibile? Sono supposizioni che producono una gragnuola di domande, creando più aporie di quante ne “risolvano”, con il modello evolutivo che si oppone alla teoria dell’involuzione. (Si pensi a Fiorella Rustici).

Forse non ha torto il filosofo Pareyson, secondo cui il male abita nel cuore stesso dell’universo. Ogni teodicea, più che una giustificazione della sofferenza, è una difesa di Dio: difficile stabilire chi sia l’avvocato migliore.

[1] Purtroppo il libercolo di Pagliarino è viziato da una superficialità disarmante, anzi l’autore prende le mosse da una tesi preconcetta, ossia lo Gnosticismo è una deviazione del Cristianesimo, per ribadirla in tutto l’opuscolo. Ora, non discuto l’interpretazione dell’autore, ma liquidare un problema tanto ostico in poche paginette, per giunta affermando che già nel I-II sec. d.C., Cristo è creduto la Seconda Persona della Trinità, mi pare molto azzardato. Non meno avventata è la datazione bassa dei Quattro Vangeli, la cui redazione è collocata dallo studioso nel I sec. Su queste ed altre premesse errate, è costruita una tesi opinabile e debole, perché basata non su un’indagine, ma su una semplice panoramica di correnti e dottrine. Ben più vigorose e rigorose sono le ricostruzioni del rumeno Culianu, dottissimo discepolo di Mircea Eliade, e, in parte, le analisi dell’erudito Ezio Albrile che, però, osserva lo Gnosticismo con la lente deformante del cattolico. In ogni caso, il tanto vituperato Gnostiscismo, almeno in alcune sue diramazioni, su certi temi fu profondo. Se non altro, i pensatori pneumatici compresero che la carneficina dell’esistenza è inconciliabile con l’idea di un Dio perfettissimo ed infinitamente buono: se le loro risposte furono deludenti e goffe, non fu tanto colpa loro, quanto dell’abissalità della questione.

Fonte: G. Pagliarino, “Cristianesimo e Gnosticismo 2000 anni di sfida”, Civitavecchia, 2003, p. 44

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22 dicembre, 2011

L'enigma degli Hyksos (seconda parte)

Leggi qui la prima parte.

Diametralmente opposto è il giudizio di altri studiosi che vedono negli Hyksos un popolo rozzo e bellicoso, incurante delle più elementari norme igieniche e per questo flagellato da malattie ripugnanti, quali la lebbra, e cui gli Egizi, dopo averli sconfitti, imposero la circoncisione per riconoscerli. [1] Alessio De Angelis, sulla scorta di Giuseppe Flavio, ritiene che essi fossero gli antenati degli Ebrei (Hapiru o Habiru), giungendo a vedere in Moses il faraone eretico Akhenaton (Amenophis IV), di origine ebraica per parte di madre. De Angelis compie una ricognizione molto accurata, evidenziando una serie di coincidenze tra i due personaggi e tra le due etnie. In particolare il coautore del saggio “Oltre la mente di Dio” sviscera le questioni religiose, evidenziando i nessi tra il dio adorato dagli Hyksos, Baal-Suketh (assimilato a Seth), e successivi sincretismi cultuali, in cui Aton-Adonay si sovrappone a YHWH, nell’ambito di una tendenza enoteista. E’ congettura non nuova: il primo a ricondurre Moses al milieu egizio ed al faraone eterodosso Akhenaton fu Sigmund Freud. E’ una linea interpretativa oggi accettata da quasi tutti gli storici che vedono nel legislatore degli Ebrei un principe o uno ierofante appartenente all’entourage di Amenophis IV. Moses fu, secondo numerosi eruditi, un seguace del credo di Aton. Il nomoteta, coinvolto nella persecuzione che tale fede subì dopo la morte di Akenaton, seguita dalla sua damnatio memoriae, fuggì tra le oasi del deserto dove scoprì la credenza in un unico dio, YHWH, che gli parve sorprendentemente simile all’autoctono Aton. Nella Bibbia aramaica, il Targum, Moses è chiamato Yahudae (Yahud), nome con cui erano designati i sacerdoti di Aton. Questo disegno non convince del tutto, poiché la fede in YHWH fu un caso di monolatria e non di monoteismo, anzi un’esperienza religiosa tribale, coesistente con altre adorazioni nel variegato mondo medio-orientale dell’antichità. YHWH fu probabilmente una divinità venerata a sud della Palestina, soprattutto nel Sinai, dove si eleva il monte in cui il nume si manifestò a Moses.[2]

Lo storico sardo Leonardo Melis, il noto autore che ha dedicato molti anni di intense ricerche ai Popoli del mare e, in particolare, agli Shardana, reputa che il profeta coincida con Neb.Ka.Set.Nebet. Citato nei testi egizi come un principe ereditario, figlio di Seti I e nipote di Ramses I, fu il fondatore della XIX dinastia che da lui prese il nome. Nel nome di Nebkhaset è contenuto quello del dio degli Hyksos, Seth, che erano, secondo Melis, Popoli del mare.

Tirando le somme sulla questione etnica, è possibile che gli Hyksos furono un melting pot, forse con una classe dirigente indo-germanica, che introdusse i cavalli, tipici animali delle steppe centro-asiatiche. All’élite si aggregarono, in posizione subordinata, pastori e predoni semiti. Resta il fatto che agli Ebrei, in quanto popolo con una specifica connotazione culturale, ci si può riferire in un periodo successivo all’esodo (se fu un esodo e non una sequela di migrazioni più o meno spontanee): è vero, però, che gli Hyksos, se non furono progenitori degli Habiru, inglobarono gruppi semiti.

[1] Risulta, però, che la circoncisione fosse in uso presso gli Egizi e che gli Ebrei la mutuarono da loro. In verità, tale usanza meriterebbe uno studio non meramente antropologico, ma, per quanto mi consta, l’unico ricercatore che ha approcciato il tema, discostandosi dai soliti criteri interpretativi, è Nigel Kerner. Si legga Our fathers who art from starships, 2010. Lo storico Flavio Barbero, a proposito del celebre racconto biblico in cui YHWH promette a Lot di non distruggere Sodoma e Gomorra, finché vi abiteranno dei giusti, asserisce che i “giusti” erano i circoncisi, distinguibili facilmente da Dio.

[2] La descrizione a tinte fosche degli Hyksos e dei loro presunti discendenti Ebrei da Manetone giunse sino a Cicerone che, in un suo discorso, definì i Giudei “prava gens”, deplorandone l’atteggiamento esclusivista ed il loro superbo astio nei confronti dei Gentili. A. De Angelis vede nelle piaghe d’Egitto le malattie che colpivano gli Hyksos-Ebrei: la blenorrea, la peste, la lebbra, la sifilide… Secondo alcuni interpreti, Mosè portava un velo sul volto per nascondere le deformazioni provocate dalla lebbra.

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19 dicembre, 2011

Dante e l’Inferno sulla terra

La passione politica nutre le pagine più fervide di Dante ed alcune fra le sue concezioni più alte. Così, tra crude invettive ed orizzonti utopici, si dispiega un pensiero che colloca nel fuoco della controversia la dimensione politica.

Nella “Commedia”, il traviamento che conduce il poeta sull’orlo del precipizio, non è un generico peccato di concupiscenza, ma appunto la partecipazione alle contese intestine da cui l’autore, inorridito, prende le distanze. Non è fortuito se precisi riscontri lessicali accomunano il canto I dell’inferno ed il canto VI. L’espressione allitterante “esta selva, selvaggia ed aspra è forte” è riverberata da “la parte selvaggia”; le tre fiere del canto proemiale, disegni allegorici di altrettante disposizioni peccaminose, richiamano “superbia, invidia e avarizia… le tre faville c’hanno i cuori accesi” del canto VI.

La “selva” dello smarrimento è dunque la città, nella fattispecie Firenze, dilaniata da cruenti conflitti tra fazioni contrapposte e deturpata da vizi innominabili, in primo luogo l’esecranda cupidigia (avarizia) che apparenta il borgo alla borghesia, “la gente nova, avida di subiti guadagni”. La città-selva è divenuta, paradossamente, lo spazio selvatico per eccellenza, in antitesi all’integrità di costumi collocata più che nel contado, in un tempo irreversibilmente tramontato. Il vagheggiamento nostalgico di un’intemerata età dell’oro senza l’oro maledetto dei fiorini, rende Dante un conservatore sdegnoso nei confronti della classe e della mentalità mercantile il cui “peccato originale” è nel denaro e nell’usura.

A Cacciaguida è affidato il compito di proiettarsi, tra idealizzazione e concretezza, nell’universo dei secoli precedenti, allorquando Firenze era una cittadina "sobria e pudica". Si staglia sempre un passato da rimpiangere o un futuro cui abbandonarsi fidenti: il presente è peggiore, perché scava la carne.

Il Nostro, mediante visioni retrospettive e profezie, intreccia la realtà politica con i moventi economici e sociali, senza trascurare il declino dei poteri ecumenici, ormai corrosi da una tabe profonda.

La concezione di Dante, eminentemente politica, stenta ad addentrarsi nella caverna metapolitica. Il sommo poeta, riconducendo la decadenza e la corruzione dell’umanità, a ragioni soprattutto etiche, alla responsabilità personale, pare ignorare o ridimensionare un influsso esterno, a meno che non si s’intenda indugiare su una curiosa corrispondenza numerologica. È noto che i canti di argomento politico sono il sesto di ciascuna cantica a formare la fatidica cifra della Bestia, il 666. E’ una coincidenza o Dante riconosce nel mondo politico la manifestazione di un regno oscuro, la turpe sintomatologia di una sostanza maligna?[1]

Non sappiamo se l’Alighieri spinse lo sguardo sino a tale profondità, se il 515 eclissò del tutto o in parte il 666. Sappiamo che nell’abisso occorre gettare lo sguardo per scoprire le marcescenti radici del sistema. Merito di Dante comunque aver compreso che il mondo, quantunque ne condannasse per lo più i governanti terreni ed i sudditi indegni, è una succursale dell’Inferno.


[1] Va precisato, però, che il 6 considerato singolarmente non ha un’accezione negativa. Paolo Vinassa de Regny, nel saggio “Il pitagorismo di Dante”, ricorda: “Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti, col 6, si forma l'esagono iscritto al circolo ed i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: ‘Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex’. Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): ‘Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius’. Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi, difatti, diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani, difatti, nella sua Cronaca (III, 2) scrive: ‘La città... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto'".

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16 dicembre, 2011

La fisica di Dio

La fisica di Dio”, saggio di Sabato Scala e Fiammetta Bianchi, svela, con straordinaria eleganza, chiarezza e semplicità, il funzionamento intimo del campo energetico intelligente attraverso un rivoluzionario modello interpretativo, superando la complessità della fisica dei quanti e spiegandone in modo elementare, quanto emozionante, i paradossi.

La conferma scientifica dell’esistenza di un ponte energetico tra l’Uomo e la Fonte originaria del progetto creativo permette l’accesso a nuovi livelli di consapevolezza offrendo, a quanti sono pronti ad accettare tale enorme e completa responsabilità, l’opportunità di influenzare e cambiare in modo tangibile la materia e la realtà in tutte le sue forme.

Partendo dalla Teoria di unificazione di un geniale fisico tedesco, Burkhard Heim, i due autori hanno ampliato, arricchito e formulato la più innovativa delle Teorie del tutto dell’odierno panorama scientifico internazionale, offrendo al grande pubblico la chiave per accedere ai segreti dell’Universo, dell’Uomo e della Vita.

"La fisica di Dio" segna la svolta definitiva nel fare scienza, ponendo al centro del motore cosmico la straordinaria corrispondenza tra i modelli di funzionamento della mente umana e quelli del Vuoto quantico, realizzando il sogno più ambizioso dell’umanità: entrare nella Mente di Dio. Vengono individuati e descritti, per la prima volta, i meccanismi elementari intelligenti che consentono la comunicazione del singolo individuo e dell’intera comunità umana con la Fonte originaria del progetto creativo.

Le antiche conoscenze cabalistiche, ermetiche, gnostiche e alchemiche, trovano oggi un'incredibile riconferma.

Il libro è pubblicato da
Unoeditori

N.B. I contenuti del saggio in oggetto non rispecchiano necessariamente le opinioni del curatore del presente blog.


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14 dicembre, 2011

Genesi

Alcune riflessioni frammentarie circa il tema della creazione

Come avviene la creazione? La creazione è il prodigioso risultato di un prodigio, di cui è difficile comprendere la genesi. E’ arduo spiegare un fenomeno che sfugge alle coordinate razionali, situandosi nella regione liminare tra il nulla e l’infinito. Ritengo tuttavia che il processo creativo dipenda dall’aggregazione di atomi coincidenti con idee, emozioni e sensazioni. Una particella ne attrae un’altra che ne attira un’altra ancora e così via, fino a che numerosi atomi formano il corpo. Fuor di metafora, una semplice parola-idea o un accostamento inusuale di due termini (la callida iunctura di Orazio) possono, agglutinandosi ad altri, generare l’enunciato ed il testo. Si crea una sorta di frattale linguistico, i cui sviluppi sono a volte imprevedibili. Certo, resta difficile intendere come quel comune vocabolo, logoro e confuso tra un’infinità di lemmi, possa all’improvviso risplendere di luce propria e rischiarare la regione tutta intorno. Forse quel termine è associato all’intuizione, ad un’estemporanea e fuggevole visione oltre il visibile.

Ungaretti individua in una parola, di cui sono riscoperte le risonanze interiori e le qualità fonico-semantiche, il nucleo della poesia. Heidegger vede nel linguaggio poetico, con la sua sfida, quello che più di ogni altro lascia trasparire l’essenza dell’essere il quale resta in gran parte nascosto, non esaurendosi negli enti.

Cicerone menziona, a proposito della creazione poetica, l’ars e l’ingenium, ossia da un lato la tecnica, la padronanza degli strumenti stilistici, dall’altro il talento, un qualcosa di innato. L’Arpinate localizza le due sorgenti dell’arte, ma ci accorgiamo che il tema non è stato sviscerato.

Michelangelo scopre nel marmo le figure imprigionate: allo scultore spetta di liberarle. E’ così: le opere letterarie, i dipinti, le statue… sono già state create, esistono già in potenza; l’artista le cava dal mondo informe in cui sono inglobate, portandole allo scoperto. La creazione artistica si situa dunque agli antipodi rispetto a quella divina: Dio trae dal nulla il mondo, mentre l’artista si limita a scoprire forme ed idee già esistenti che l’uomo comune non è in grado di scorgere.

E’ come se il processo creativo, attingendo ad una fonte di archetipi, dipendesse da un appello, da un destino. “I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ch'e' ditta dentro vo significando”. Così Dante traduce l’idea dell’urgenza creativa.

Non è l’artista che si esprime, poiché una voce a lui anteriore e superiore parla attraverso di lui. Il silenzio nella sua mente è la condizione necessaria affinché quella voce si manifesti.

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11 dicembre, 2011

I prodigi di Giuseppe Flavio (prima parte)

Giuseppe Flavio (Gerusalemme, 37 o 38 d.C., Roma dopo il 103 d.C.) è il noto storico ebreo. Di ricca famiglia sacerdotale, partecipò alla guerra giudaica: nel 67 fu catturato da Tito Flavio Vespasiano che lo trattò benignamente per poi liberarlo. Per riconoscenza, Giuseppe assunse il soprannome di Flavio. In Palestina con Tito fu testimone della presa di Gerusalemme. Accompagnò poi Tito nell’Urbe dove visse per il resto della sua vita. Giuseppe Flavio si prefisse con le sue opere di promuovere nel mondo ellenistico e romano la conoscenza della realtà ebraica. Scrisse la “Guerra giudaica” in sette libri prima in aramaico poi in greco, mettendo a frutto la sua cognizione diretta dei fatti. Di più largo respiro sono le “Antichità giudaiche” in venti libri, in greco, in cui è ripercorsa la storia dei Giudei dalle origini ai tempi della rivolta, attingendo a fonti ormai scomparse. Nei due libri “Contro Apione”, un grammatico alessandrino che si era pronunciato contro gli Ebrei, riprese i motivi tradizionali dell’apologetica giudaica sull’antichità e la superiorità degli Ebrei rispetto ai Greci. Nell’”Autobiografia” integrò alcune parti delle “Antichità”.

Lo storico, nel VI libro della “Guerra giudaica”, nel corso della narrazione degli eventi, che si snodano dal dal 60 al 70 d.C., indugia su alcuni episodi sbalorditivi occorsi prima del conflitto conclusosi con l’espugnazione di Gerusalemme per opera dei Romani. La morsa attorno al tempio di Salomone ed agli edifici circostanti, in cui resistono i combattenti messianisti, si stringe sempre più. La situazione per gli assediati è ormai disperata: le legioni di Tito attaccano in massa, scorrono fiumi di sangue, i cadaveri dei ribelli si ammucchiano nelle strade, mentre le fiamme avvolgono il santuario.

Giuseppe Flavio attribuisce la débâcle dei ribelli a fanatismo e sprovvedutezza nonché alla predicazione di profeti mendaci. Secondo l’autore, i suoi correligionari avevano ignorato o interpretato in maniera distorta alcuni prodigi che avrebbero dovuto stornarli dal prendere le armi contro i Romani.

''A causare la loro morte fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l'aiuto del Dio e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per infondere coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l'uomo è pronto a credere e, quando l'ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s'abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l'imminente rovina.

Quasi fossero stati frastornati dal tuono ed accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti del Dio, come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada ed una cometa che durò un anno o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per a festa degli Azzimi nell'ottavo giorno del mese di Xanthico, all'ora nona della notte l'altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore che sembrava di essere in pieno giorno ed il fenomeno durò per mezz'ora. Agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo.

Durante la stessa festa, una mucca, che un tale menava al sacrificio, partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d'un pezzo, all'ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l'aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina.

Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una fola, se non avesse dauna parte il sostegno dei testimoni oculari, dall'altra la conferma delle sventure che seguirono.

Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra eschiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo e poi un insieme di voci che dicevano: 'Da questo luogo noi andiamo via'''.

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09 dicembre, 2011

Inverno

La luce fredda si crepa: lance di ghiaccio conficcate nel silenzio. Il gelo addenta la schiera dei salici, stride sul fiume, morde l’anima. Le fiamme delle stelle lambiscono i declivi. Inceneriscono l'orizzonte delle attese.

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08 dicembre, 2011

"X Times" di dicembre in edicola

E' in edicola il numero di dicembre della rivista "X Times", la pubblicazione diretta da Lavinia Pallotta e Pino Morelli. L'editoriale di questo mese è dedicato al tema del disclosure.

Leggi qui la nota della Direttrice ed il sommario degli articoli.

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04 dicembre, 2011

L'enigma degli Hyksos (prima parte)

Chi furono veramente gli Hyksos? Secondo la storiografia ufficiale, gli Hyksos furono una popolazione di origine asiatica, il cui nome è una deformazione greca dell’appellativo che diedero loro gli Egizi (Heka Khasut, “signori di paesi stranieri”). Erano un insieme di nazioni semite ed indoeuropee che, muovendosi forse dal Caucaso, verso il 2000 a.C., si spostarono verso Sud. Insediamenti degli Hyksos sono stati rinvenuti in Galilea, Siria e Persia. A poco a poco, essi si installarono in Egitto: tra il 1730 ed il 1720 a.C. occuparono la città di Avaris (Tell ed-Daba’) che divenne la loro capitale. Da essa, scendendo verso Sud, lungo la zona orientale del delta, si espansero lungo il corso inferiore del Nilo. Intorno al 1675, il dominio degli Hyksos si estendeva dal Levante meridionale sino a Gebelein, di fronte a Luxor. I sovrani degli Hyksos governarono l’Egitto settentrionale con sistemi e metodi totalmente egizi, adottando la scrittura geroglifica. I faraoni dell’Alto Egitto convissero con i re invasori, forse come vassalli. Alla fine del XVII sec. a.C. la XVII dinastia avviò la riscossa contro gli stranieri. Kames (Kamoses), re di Tebe, combattè Apophis II (XVI dinastia Hyksos) verso il 1580. Gli Hyksos furono definitivamente espulsi dal faraone Ahmes (Ahmoses) nel 1580 a.C. circa. Egli espugnò Avaris.

Agli Hyksos si deve l’introduzione del carro da guerra, del cavallo, di un nuovo tipo di arco oltre ad una più progredita lavorazione del bronzo.

Sono numerose le ipotesi circa l'identità etnica degli Hyksos. La maggior parte archeologi li descrive come un crogiolo di genti, dediti alle attività più disparate: pastorizia, banditismo, artigianato, commercio… L'egittologo tedesco Wolfgang Helck tempo addietro sostenne che gli Hyksos erano parte di una massiccia e diffusa migrazione hurrita ed indo-germanica nel Medio oriente. Helk ha poi abbandonato la sua ricostruzione. Mentre alcuni storici descrivono gli Hyksos come orde del Nord che invasero la Terra di Canaan e l'Egitto, con i loro carri veloci, altri si riferiscono ad una “conquista strisciante”, cioè ad un’infiltrazione graduale per opera di nomadi o seminomadi che lentamente assunsero il controllo del Basso Egitto.

Giuseppe Flavio in “Contro Apione” individua nell’esodo degli Ebrei(Hapiru o Habiru) l’espulsione degli Hyksos, richiamandosi ad alcune notizie riportate dallo storico egizio Manetone. E’ un’identificazione accolta e rilanciata recentemente, come vedremo, da qualche studioso.

Gli archeologi, oltre a dissentire sulle origini di codesto popolo, divergono anche sul loro contributo alla storia della civiltà. Massimo Bontempelli ed Ettore Bruni, rigettando un lungo retaggio storiografico, risalente a Manetone, osservano che “l’Egitto, sotto le dinastie faraoniche degli Hyksos, non subì alcun impoverimento economico ed alcun imbarbarimento culturale. Al contrario, i legami tribali mantenuti dagli Hyksos con il retroterra asiatico da cui provenivano, fecero uscire l’Egitto dal suo isolamento rispetto all’Asia e gli fecero per la prima volta annodare direttamente e per via terrestre relazioni commerciali con l’area siro-palestinese, avvenute sino ad allora solo indirettamente, attraverso Byblos e soltanto mediante le spedizioni marittime compiute nel porto di quella città. In seguito a questi nuovi contatti, gli Egizi passarono dall’età del rame all’età del bronzo, impararono a conoscere e ad usare i cavalli, principiarono a praticare l’apicoltura, trapiantarono la vite palestinese nelle oasi africane sino a non dover più importare da Creta il vino, diventandone anzi esportatori. Dal punto di vista culturale, gli Hyksos si fecero custodi delle millenarie tradizioni egizie e ridiedero prestigio al potere faraonico, limitando i privilegi del clero di Ammon-Ra”.

Le fonti del presente articolo saranno indicate in calce all'ultima parte.

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01 dicembre, 2011

L'anima e il suo destino

“L’anima e il suo destino” è il titolo di un saggio del teologo Vito Mancuso. Il libro ha suscitato infuocate polemiche, poiché l’autore, pur dichiarandosi cattolico, mette in discussione alcuni dogmi di Santa Madre Chiesa. In effetti, mi domando per quale motivo Mancuso continui ad aderire al Cattolicesimo, visto che ne contesta gran parte della discutibile dottrina. Non intendo qui recensire il volume che non è privo di qualche pregio, benché costruito su premesse scientifiche e filosofiche alquanto farraginose. E’, però, lodevole che l’autore si interroghi circa i novissimi, sull’orizzonte ultraterreno dell’uomo, accantonate le questioni sociali o pseudo-etiche cui indulgono in modo corrivo sacerdoti e vescovi dal pulpito e soprattutto in televisione.

Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.

Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.

A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “
Reincarnazione” cui rimando.

Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.

Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.

Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?

Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.

Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.

Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?


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