La giustizia è una forma di vendetta, per quanto sublimata, legittimata, codificata. Non è un caso se nella società omerica, la vendetta, timorìa, era reputata un valore ed un preciso dovere dell’eroe, il kalòs kaì agathòs. La giustizia, infatti, è regolamento di conti, punizione dello scellerato oltre che rappresaglia. [1] Chi può contestarlo? Certi castighi sono doverosi, vitali. La giustizia mira a pareggiare i conti, a ripristinare un equilibrio turbato. E’ questo il compito del Tribunale divino che, premiando i probi con la beatitudine perenne e condannando i malvagi ad un inferno interminabile, attribuisce a ciascun uomo quanto merita in base alla sua condotta. [2]
Preferiremmo una giustizia perfetta, ma è impossibile ottenerla, almeno per due ragioni: da un lato gli uomini sono imperfetti e da loro non ci possiamo attendere un’equità assoluta, anche quando mirassero ad una totale imparzialità; inoltre una giustizia perfetta deve essere immediata, il che evidentemente non è e non può essere. In tale contesto, anche sulla stessa Giustizia superiore, per quanto compiuta ed ineccepibile, giacché rinviata post mortem, nonostante il tragitto umano sia comunque brevissimo, si proietta una pur evanescente ombra.
Si constata che l’esistenza e l’esigenza stessa della giustizia dipendono da una primigenia mancanza di giustizia. Sentiremmo la necessità del giusto, se non esistesse l’ingiusto? Non sarebbe stato possibile e desiderabile generare un universo senza la presenza del male nel tempo e senza l’Inferno nell’interminabilità, con il Tartaro che è l’orrido sotterraneo di un universo magnifico? Lo stesso strumento definitivo per una giustizia definitiva, l’Inferno senza fine, non è una macula sulla Creazione, non è inconciliabile con un cosmo redento dal male, anche dal semplice, sbiadito ricordo del male, dalla sua eco proveniente dal tenebroso scantinato? Sono domande per cui non abbiamo risposta, sono domande per cui forse non esiste risposta.
[1] Si veda, ad esempio, in un contesto teologico, la parentela tra vendetta e giustizia in Dante, Inf. Canto VII, vv. 11-12: vuolsi ne l’alto, là dove Michele/ fé la vendetta del superbo strupo.
[2] Consideriamo l'esistenza dell'Inferno e del Paradiso come ipotesi di lavoro.
Preferiremmo una giustizia perfetta, ma è impossibile ottenerla, almeno per due ragioni: da un lato gli uomini sono imperfetti e da loro non ci possiamo attendere un’equità assoluta, anche quando mirassero ad una totale imparzialità; inoltre una giustizia perfetta deve essere immediata, il che evidentemente non è e non può essere. In tale contesto, anche sulla stessa Giustizia superiore, per quanto compiuta ed ineccepibile, giacché rinviata post mortem, nonostante il tragitto umano sia comunque brevissimo, si proietta una pur evanescente ombra.
Si constata che l’esistenza e l’esigenza stessa della giustizia dipendono da una primigenia mancanza di giustizia. Sentiremmo la necessità del giusto, se non esistesse l’ingiusto? Non sarebbe stato possibile e desiderabile generare un universo senza la presenza del male nel tempo e senza l’Inferno nell’interminabilità, con il Tartaro che è l’orrido sotterraneo di un universo magnifico? Lo stesso strumento definitivo per una giustizia definitiva, l’Inferno senza fine, non è una macula sulla Creazione, non è inconciliabile con un cosmo redento dal male, anche dal semplice, sbiadito ricordo del male, dalla sua eco proveniente dal tenebroso scantinato? Sono domande per cui non abbiamo risposta, sono domande per cui forse non esiste risposta.
[1] Si veda, ad esempio, in un contesto teologico, la parentela tra vendetta e giustizia in Dante, Inf. Canto VII, vv. 11-12: vuolsi ne l’alto, là dove Michele/ fé la vendetta del superbo strupo.
[2] Consideriamo l'esistenza dell'Inferno e del Paradiso come ipotesi di lavoro.
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